Che succede con l’intelligenza artificiale?

di Annamaria Testa

“Non perfetta ma straordinariamente impressionante”.
Così McKinsey, società internazionale di consulenza strategica, descrive in un recente articolo la prestazione di ChatGPT, il modello di intelligenza artificiale per l’elaborazione di testi di cui molto si sta parlando.

 La sensazione è che, fosse esistita una formula superlativa ancor più superlativa di “straordinariamente impressionante”, gli autori avrebbero usato quella.

Il motivo di tanto sbalordimento è semplice: McKinsey chiede a Chat GPT di scrivere, nello stile McKinsey, il paragrafo di apertura di un articolo su come l’intelligenza artificiale (da adesso in poi la chiameremo anche AI) influirà sul mondo degli affari. E scopre che l’AI è in grado di farlo.

ESPERIMENTI DI SCRITTURA. Compiono un esperimento analogo molti altri. Tra questi, l’Atlantic, che pubblica un gustoso articolo di critica alle prestazioni dell’AI. La quale non ha la capacità di capire realmente la complessità del linguaggio e della conversazione umana. È semplicemente addestrata a generare parole sulla base di un dato input… ciò significa che è probabile che qualsiasi risposta generata sia superficiale e manchi di profondità e comprensione.

Il fatto notevole, però, è che – in un curioso gioco di specchi – questo testo è stato scritto dall’AI medesima, in risposta alla richiesta di produrre, nello stile dell’Atlantic, un articolo critico nei confronti dell’AI. L’altro fatto notevole è che l’AI sembra essere piuttosto onesta a proposito di se stessa.
Tra l’altro: l’Atlantic ha coperto ampiamente il tema dell’AI. Qui, se volete dare un’occhiata, ci sono tutti gli articoli.

Anche Federico Rampini, dopo aver sottoposto all’AI un argomento che conosce bene, racconta il proprio sconcerto sul Corriere della Seraho chiesto a ChatGPT di scrivere un’analisi di cinquemila parole. Lo ha fatto in cinque minuti. Ho letto il risultato: dignitoso. Non solo per la forma, ortografia e sintassi di un inglese perfetto. Anche il contenuto: una sintesi che definirei equilibrata e aggiornata di informazioni e analisi correnti sul tema della Cina in Africa. Posso fare di meglio io? Per adesso sì… ma anziché cinque minuti ci metterei cinque ore, o forse cinque giorni.

MA È PROPRIO VERO? McKinsey si sbilancia di più, e afferma che, nel momento in cui i computer possono rispondere a domande producendo contenuti originali a partire dai dati in loro possesso, possono ora senza dubbio dimostrare creatività.
Per capire se è proprio vero, e se almeno qualche dubbio possiamo averlo, e quali sono i rischi, le potenzialità e le prospettive, dobbiamo fare un passo di lato. E, prima ancora, un bel passo indietro. Alla fine, se tutto va bene, potremo fare anche un passo avanti.
Insomma: mettiamoci tutti quanti comodi.

DI CHE COSA STIAMO PARLANDO. Prima di tutto: “Intelligenza Artificiale” oggi vuol dire che un computer può essere addestrato a elaborare dati secondo procedure ispirate, perfino nella terminologia, a ciò che sappiamo del funzionamento del cervello umano. 
Per esempio, l’AI può riconoscere schemi e associare dati e può sviluppare nuove strategie per riuscirci meglio. Lo fa velocissimamente. Più crescono la potenza di calcolo e i dati a disposizione per l’addestramento, più l’intelligenza artificiale diventa accurata nelle sue risposte.

Il termine “Intelligenza Artificiale” appare per la prima volta nel 1956, quando l’informatico e scienziato cognitivo americano John McCarthy lo conia in occasione di un seminario estivo presso il Dartmouth College. Il seminario dura due mesi. Nel gruppetto dei partecipanti ci sono scienziati cognitivi, informatici, fisici, matematici, Ingegneri. C’è Claude Shannon, padre della teoria dell’informazione. C’è Herbert Simon, che anni dopo vincerà il Nobel. La Dartmouth conference viene considerata il momento fondativo dell’Intelligenza artificiale intesa come nuovo campo di studi.

Non dimentichiamo però che ancora prima, nel 1943, il neurofisiologo Warren McCulloch e il matematico Walter Pitts (ricordiamoci di questi due nomi: li ritroveremo) teorizzano la possibilità di creare un sistema neurale artificiale, capace di eseguire operazioni logiche e di imparare.

Nel 1950 Shannon ipotizza la creazione di un programma informatico per giocare a scacchi.
Nello stesso anno il matematico e crittografo inglese Alan Turing formula l’idea del test che prenderà il suo nome. In sostanza, una macchina si potrà considerare “intelligente” quando sarà in grado di fornire risposte indistinguibili da quelle di un essere umano. Il test verrà modificato nel tempo alla ricerca di criteri via via più stringenti, e si evolverà insieme allo sviluppo delle macchine.

ATTESE ESAGERATE. Nel 1958 Io psicologo Frank Rosemblatt sviluppa il Perceptron. Si tratta di un programma per riconoscere le immagini che applica le teorie di McCulloch e Pitts, e consiste, appunto, in una rete neurale artificiale. Il programma gira su un computer IBM 704 dotato di 400 fotocellule: un bestione pesante cinque tonnellate.

Continua...

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